Il genitore del genitore
Per la maggior parte di noi, diventati adulti, arriva un giorno in cui ci si sente chiamare “papà” o “mamma” da uno dei nostri anziani genitori.
Tralasciando i commenti del tipo “la vita è una ruota” o “da vecchi si torna bambini”, affermazioni non erronee ma forse inutili, bisogna dire che quando ciò accade merita qualche riflessone.
Non solo per il paradosso -nessun figlio immagina mai di sentirsi chiamare in questo modo- ma anche perché questo è un lapsus “da manuale” e perciò non cade su un figlio a caso -nemmeno se l’anziano ha perso un po’ di lucidità- e dunque è rivelatore di molte cose.
Chi chiama “mamma” o “papà” qualcuno che non lo è, sente in quel qualcuno delle caratteristiche “materne” o “paterne” nei sui confronti, gli riconosce un ruolo di protezione, o di guida, ossia rivela di percepirlo come un riferimento forte nella propria vita. Un riferimento nel quale -perché scatti il lapsus- è presente una componente emozionale importante.
Certamente potremmo definirlo come un meccanismo di switch automatico di fronte ad un gesto, l’accudimento ricevuto, che ne evoca altri del tempo che fu, ma questi lapsus mettono in luce il sentire più profondo (magari mai detto) dei rapporti famigliari.
Il genitore mette in quelle parole il rapporto che ha avuto -a sua volta- con il suo proprio genitore, e chiamare qualcuno “papà” o “mamma” non è necessariamente fargli un complimento.
E i figli, destinatari passivi di questo lapsus? Se il rapporto con il genitore è stato positivo e c’è riconoscenza nei suoi confronti per ciò che ha fatto per il figlio, la reazione sarà commossa e affettuosa.
Ma se il rapporto è conflittuale, se il figlio ritiene di non essere stato accudito e sostenuto a sufficienza quando era il momento, probabilmente si sentirà ancor più defraudato da questo cambio forzato di identità e non lo gradirà affatto.
Ci sono dei mondi dietro le parole.