Imparare il distacco: Il bambino e l’esperienza della separazione/morte
Pensando al mondo dei bambini spesso riteniamo, o meglio ci piace pensare, che non siano consapevoli della morte o dei problemi che essa pone e quindi evitiamo di prendere l’iniziativa di trattare l’argomento quando si verifica un lutto in famiglia, questo per paura di intristire la loro esistenza con ansia e dolore. Oggi parlare di morte significa affrontare un radicato tabù sociale in quanto ci sono buone ragioni (osservabili) per ipotizzare che sia la madre (o meglio siano i genitori) a proiettare la propria angoscia di morte nel bambino e che questo sia il contenitore, in un primo tempo inconsapevole.(E. Bonasia, Atti del Congresso “Bion Past and Future” 1997).
I nostri bambini incontrano spesso la “morte ammazzata” attraverso la televisione dove di solito sono i cattivi a morire e quindi nessuno se ne dispiace veramente , mentre sempre meno partecipano alla morte di un nonno o un familiare .Questo si deve al fatto che i nostri nuclei familiari si sono ristretti e il rito funebre si svolge al di fuori delle mura domestiche. Ecco perchè genitori ed insegnanti dovrebbero cogliere le occasioni per poter affrontare questo aspetto della vita legato ed intrecciato a tutte le altre fasi evolutive, per fornire nuovi dati di conoscenza e stimolare la riflessione, evitando invece racconti paurosi che danno della morte un’immagine distorta.
Alcuni psicoanalisti hanno notato come le reazioni di molti bambini ed adolescenti alla morte di un genitore erano inespresse dopo l’accadimento, in quanto” negavano” il carattere definitivo della perdita e vi era ancora l’aspettativa più o meno consapevole di un ritorno del genitore. Oppure si evidenziavano degli acting-out negli adolescenti che sceglievano un’attività professionale o di fede che li portava lontano dal luogo dell’accaduto. Si rivela molto importante per un bambino avere una persona di fiducia per poter esprimere sentimenti collegati alla perdita: insicurezza generalizzata e bisogno conseguente di ritrovarla attraverso un sostituto genitoriale, timore di essere abbandonato anche dal genitore sopravvissuto, collera per la sensazione di essere stato ingiustamente abbandonato e per l’impossibilità di ritrovarlo, infine la tendenza a trovare un capro espiatorio responsabile dell’accaduto e il senso di colpa per un cattivo comportamento. Il senso di colpa potrebbe anche insorgere quando il bambino si scopre capace di ridere e sentirsi felice nonostante l’evento luttuoso. Altra reazione alla perdita è il desiderio di cancellare il tempo presente per vivere nel ricordo positivo del passato (idealizzazione), accentuato negli adolescenti dove vi è un continuo e inconsapevole confronto tra proprio partner e genitore perso.
In ogni caso vi è una sensazione costante e generalizzata di non essere capiti nel proprio dolore, del senso di ingiustizia subita ,che possono essere esasperati se continuamente riportati ad eseguire l’esame di realtà. Comunque è importante per tutti esprimere l’intera gamma di reazioni così come suggeriva Shakespeare “il dolore che non parla imprigiona il cuore agitato e lo fa schiantare”. Se la morte è avvenuta per una persona della stessa età, specie se facente parte della famiglia, può spaventare molto il bambino che potrà avere dei dubbi che non oserà esternare “Morirò anch’io?” e “Avrebbero preferito che morissi io?”. Improvvisamente si renderà conto che la morte non riguarda solo i cattivi e i vecchi, ma capita anche ai bambini e ne è molto spaventato e richiede quindi attenzioni e cure particolari. Ultimamente mi è capitato di assistere un fratellino sano di un adolescente colpito da leucemia, che si rifugiava continuamente sul balcone in pigiama in pieno inverno, per esprimere il bisogno di attenzione, magari anche lui attraverso la malattia.
Quando ci si confronta con bambini molto piccoli bisogna fare attenzione a utilizzare le parole per il loro aspetto pragmatico; è meglio adottare il termine “morto” piuttosto che “addormentato” o peggio ”si è dimenticato di respirare” o “ è volato in cielo”.
Renzo Vianello evidenzia come la comprensione della morte nel bambino inizi già verso i 3-4 anni come cessazione di tutte le funzioni vitali, prima di tale età la parola “morto” è limitata ad una visione onnipotente e magica. Per i bambini di 5-6 anni la morte sembra essere caratterizzata non solo dalla vecchiaia, ma anche da malattie ed incidenti, inoltre viene associata a pensieri penosi o spiacevoli e si comincia a pensare che la morte sia come un addormentarsi che può diventare per sempre. Il concetto di irreversibilità verrà definitivamente acquisito verso i 7-8 anni dove la morte comincerà ad essere compresa anche nel suo aspetto universale “tutti dobbiamo morire”e verrà associata all’assenza di movimento e quindi delle funzioni biologiche, mostrando anche il suo aspetto violento e aggressivo. Al termine “morto” si contrappone quello di “vivo” e in questa fase inizia il concetto di sfida tra fantasia e realtà, per fronteggiare la paura che la morte comporta. Questo atteggiamento prosegue per i 9-10 anni dove è più facile che i bambini possano esprimere anche verbalmente il loro atteggiamento di paura e di insicurezza. La morte viene vissuta stabilmente come irreversibile ed universale e può essere evitata con un comportamento attivo nella realtà, inoltre in questa fascia d’età le nozioni religiose che garantiscono l’immortalità vengono assimilate facilmente.
Per tutta l’età evolutiva l’angoscia di morte viene arginata dal pensiero magico ed onnipotente dell’immortalità da cui ci si separa con lentezza e a strappi. Spesso può essere accompagnata dalla negazione, sempre per evitare l’angoscia, oppure attraverso la sfida per fronteggiare la paura; questo atteggiamento può durare per molti anni, addirittura per tutta la vita, tanto che per molti l’esistenza ha senso solo se la si mette in gioco continuamente.
“Questo aspetto è tipico dell’adolescente così pervaso dall’identificazione narcisistica che non lascia possibilità di identificarsi con il morto, nel luogo del lutto compare la negazione della realtà, la negazione della perdita dell’oggetto e lo scompenso psicotico: l’altro non è morto” (G. Rimbault ,Il bambino e la morte, p. 149), oppure può instaurarsi una fase maniacale seguita da uno stato melanconico, allo scopo di negare la perdita e il senso di colpa.
Per accettare la morte dell’altro occorre tollerare la scomparsa definitiva dei sostegni affettivi e dell’assenza di futuro nel progetto immaginario comune, oltre ai sentimenti ambivalenti nei confronti della persona scomparsa, riconoscendo come destino la propria morte futura. Ma perché questo avvenga bisogna che la morte non riattivi una precedente perdita rimossa, non elaborata, perché in quel caso la somma delle perdite potrebbe essere troppo pesante. Potremmo concludere affermando che se il soggetto non ha ancora avuto modo di vivere il disinvestimento dei primi oggetti d’amore, qualunque perdita o morte ulteriore scatenerà un processo che minaccerà l’esistenza interna di questi oggetti, e quindi l’evoluzione di tale processo dipenderà dalla struttura personale di ciascuno. Comunque il lutto richiede un certo tempo che comporta una fase di idealizzazione dell’oggetto perduto che permetterà poi un graduale disinvestimento.
Una volta portato a termine, questo permetterà da un lato l’introiezione dell’oggetto perduto, sotto forma di ricordi e modi comuni a sé e al morto, dall’altro l’investimento affettivo di un nuovo oggetto, lo sviluppo di un nuovo amore. “La fotografia del morto ci è cara, ma non indispensabile”, la fotografia simboleggia l’assenza e la presenza il cui apprendimento simbolico è stato acquisito nei primi mesi di vita nel padroneggiare la paura della scomparsa della figura materna e di conseguenza di scomparire noi stessi. S. Freud ha descritto tale processo attraverso l’analisi del gioco “Fort-Da” che il nipote di 18 mesi faceva con un rocchetto, gioco che in Italia chiamiamo “Bau Cette”. Il neonato lanciando e recuperando il rocchetto fuori dal lettino, lo accompagnava con l’esclamazione “Oo-Oo” cioè Fort (via) e Da (ecco) e in questo Freud riconosceva il segno della simbolizzazione dell’assenza e poi della presenza della scomparsa e ricomparsa della madre.
Questo sperimentare ed apprendere l’assenza-perdita dura tutta la vita sino alla morte che l’essere umano ha ben simbolizzato nel rito funebre che celebra la perdita definitiva e dove sottolinea Elliott Jaques “viene fornita alla comunità e ai familiari del defunto l’occasione di cooperare inconsciamente nello scindere dalla parte amata, la parte cattiva dell’oggetto, di seppellire i cattivi oggetti e impulsi distruttivi e di proteggere la parte buona e amata come una memoria perenne”(M. Klein, Nuove vie della psicoanalisi, p. 618). Proseguendo in quello che la Klein definisce tentativo di “riacquistare il paradiso perduto, della perdita degli oggetti interni, per ritrovare sollievo in un clima di amore verso di loro perchè hanno dimostrato di essere dopotutto utili e buoni”(M. Klein, Nuove vie della psicoanalisi ,p. 618).