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La comfort zone, ovvero la chiusura

La comfort zone, ovvero la chiusura

Si sta diffondendo l’uso di questa espressione e, a patto che non venga usata a casaccio, la sua conoscenza sarebbe una ottima cosa nella direzione di una maggiore e diffusa comprensione dei meccanismi che caratterizzano il nostro cervello e la nostra psiche.
Dico questo perché è la “comfort zone” o letteralmente “zona comoda, famigliare, agevole, priva di fatica o ansia” indicherebbe in origine uno stato psicologico, ma recentemente è declinata in modo improprio e modaiolo, fino a diventare un marchio di prodotti da consumare per indurre questo stato… e non mi riferisco qui a sostanze di vario tipo (!) ma a materassi avveniristici e prodotti vari legati al cosiddetto “ benessere”. Del resto sono gli alti livelli di stress nella nostra società che inducono questo genere di storpiature.
In psicologia “comfort zone” si usa per indicare uno stato mentale che si potrebbe definire “immobilismo opportunista” o brutalmente “niente-problemi”: come un bozzolo che protegge da sollecitazioni e nuovi stimoli, è uno stato che tende a mantenere sé stesso, restando nel quale si evita accuratamente di entrare in contatto con agenti esterni che possono essere percepiti –tutti- come fonte di ansia o pericolo. Poco a che fare dunque con il sacrosanto bagno rilassante con i sali dal profumo preferito! Certamente la comfort zone indica uno stato indotto da persone o ambienti o situazioni ove ci possiamo rilassare, sentirci tranquilli e protetti, ma deve essere solo una porzione anche piccola del nostro tempo, dove rifugiarci ogni tanto, mentre la vita va vissuta, vissuta e affrontata là fuori, anche senza ombrello.
E’ uno stato che può infatti essere decisamente negativo se si protrae a lungo nel tempo e che può incontrare qualche parentela con sindromi depressive; un esempio diffuso è una fase spesso vissuta dai giovanissimi nella quale il distacco dalla protezione degli adulti risulta difficile, andare verso l’età adulta è sentito come pericoloso, al punto da rinunciare alle esperienze che servono a sperimentare il mondo, ad affrontare cose nuove. Accade anche agli adulti, dietro c’è talvolta il timore del fallimento, il non saper affrontare positivamente il nuovo; spesso si accompagna ad una radicata chiusura mentale, alla raffigurazione patologica del diverso come sempre minaccioso. Quelle che così vengono accuratamente evitate ed etichettate come negative/inutili/non interessanti a priori sono le opportunità di sviluppo che il mondo ci offre in continuazione.
Tra la spericolatezza e – all’opposto – la chiusura al nuovo, c’è una vasta area che si chiama “attraversare la vita, conoscere e capire” il mondo attraverso il solito gran metodo: l’esperienza personale. Per evolvere non dobbiamo restare sempre uguali a noi stessi, dobbiamo confrontarci e lasciarci contaminare. Una questione con molte sfaccettature, altro che bagno schiuma!