La relazione tra mente e corpo nelle situazioni al limite: Gli stati vegetativi
Durante una lezione di clinica psicoanalitica sul rapporto tra mente e corpo ad un certo punto ci si è cominciati a chiedere cosa accade quando questa relazione è profondamente segnata da un corpo ferito, traumatizzato, in un certo senso privo di vita come nel caso di “occhi che non vedono”, di “corpi che non sentono” e che non percepiscono, di “menti che non pensano”, cosa accade?
La riflessione su questi temi e sui risvolti che essi hanno sulla pratica clinica non è ancora sufficiente; forse si è abituati a pensare “all’altro che curiamo” come “all’altro afflitto dalla malattia mentale o da una sofferenza intrapsichica e/o familiare”, ma quando poi entra in gioco, prepotentemente, il corpo ci si deve porre tanti interrogativi che riguardano non solo il senso della malattia per quella persona, ma anche il senso della malattia per noi e per chi ne è colpito, più o meno, direttamente. In un certo qual senso credo che la pratica clinica debba tener conto di alcuni aspetti corporei più di quanto faccia normalmente, quando vi è un corpo gravemente malato è necessario tener conto di certi aspetti tra i quali non ultimi quelli medici ed etici, oltre che rendersi conto che in certi casi la percezione di se e il modo di esperire la realtà per queste persone è completamente diversa.
La mia esperienza con queste tematiche è cominciata tanto tempo fa quando una persona a me cara è morta di cancro. Già allora ho cominciato a domandarmi cosa volesse dire avere il cancro per una persona e cosa potesse significare nella mia famiglia avere il cancro. Il cancro lo avevamo in un certo senso tutti, così come credo che sia per tutti coloro che vivono accanto ad un familiare malato. Ed a seconda della malattia che affligge il nostro caro, il rischio di sentirsi travolti e sopraffatti può essere molto forte e drammatico. La fisicità della malattia e l’imprescindibilità dell’esito ad essa connessa, in certe situazioni cliniche sono aspetti che segnano profondamente e che si legano all’elaborazione del lutto e al tema della perdita, al dover convivere con una malattia con un certo esito mortale come accade per esempio con certe patologie neurologiche.
Quattro anni fa ho poi cominciato a lavorare presso l’Istituto Neurologico Besta di Milano in un gruppo di ricerca che si occupa di disabilità. Pur non lavorando come clinico, ho avuto modo di interrogarmi spesso su cosa voglia dire stare in un corpo che alle volte è una prigione ed anche un’immensa barriera. Al Besta arrivano persone con patologie molto gravi e, come spesso accade per le patologie neurologiche, di tipo degenerativo (Parkinson, Alzheimer, Tumori cerebrali, Scleorsi Laterale Amiotrofica, Corea di Huntigton, Tetraparesi, Paralisi cerebrali infantili, solo per citarne alcune). Ho visto tante volte cosa possa voler dire un corpo all’interno del quale è racchiusa una grande sofferenza e mi sono chiesta come si possa riuscire a lavorare dal punto di vista clinico e psicoterapeutico con persone così malate.
Per altro verso con questo lavoro ho però anche imparato a ridare dignità alla mente e al corpo di queste persone ridimensionando alcuni preconcetti ed imparando a conoscere e a capire che, anche nei casi più difficili e nonostante l’urgenza medica o il forte impatto del corpo malato, esiste un mondo intrapsichico che merita ascolto e accoglienza e che troppo spesso è negato dalla corporeità ingombrante e dai preconcetti. I desideri, le paure, i fantasmi inconsci, il mondo affettivo ed emotivo forse più che in altri casi vanno accolti e soprattutto pensati e resi pensabili laddove vi è un’impossibilità a farlo. Nel processo di cura delle persone con disabilità ritengo sia importante avere un “modello di persona” e di “disabile” non pregiudizievole e limitato, questa entrerà a fa parte del nostro approccio alla cura e nel nostro setting.
Tutte queste considerazioni mi hanno permesso di riflettere sul fatto che un corpo profondamente segnato dalla malattia deve lasciare spazio al pensiero e alla speranza dentro di noi che curiamo e dentro le persone e i familiari che soffrono. Il corpo malato non dovrebbe diventare catalizzatore di tutte le cure e le attenzioni, spostando l’attenzione sul versante della cure mediche e riabilitative, anche se credo che quasi sempre accada così. L’urgenza clinica, infatti, fa dimenticare il tempo dell’accoglienza e dell’ascolto. Mi sono recentemente occupata di seguire un progetto sui bambini operati di tumore cerebrale ed è quasi sconcertante quanto l’importanza della guarigione e dell’intervento chirurgico che “asporta” il tumore e il “male” catalizzi l’attenzione dei curanti a tal punto che quasi nessuno si pone dei problemi di tipo psicosociale come la frequenza della scuola completamente assente, le relazioni con i coetanei per gli adolescenti, i risvolti psicologici di avere degli effetti iatrogeni a volte molto seri e invalidanti a prescindere dalla guarigione dal tumore. Nessuno sembra preoccuparsi della persona, tutti sembrano interessarsi solo ad allontanare dal corpo l’ “oggetto estraneo”.
Guardando la questione da un altro punto di vista per esperienze vissute mi domando cosa possa accadere quando a questa urgenza clinica sul corpo poi si contrapponga una mente malata e assente.
Non tutte le patologie hanno pensiero, non tutte le patologie hanno una mente, un apparato per pensare, e allora quando la parte del corpo a non essere “viva” è la mente, cosa accade al corpo? Come guardiamo il corpo “senza” la mente? E come guardiamo una “mente assente”?
Da quando lavoro qui al Besta il dibattito sulla vita, che inevitabilmente interviene in questi casi, si è andato ampliando ed intensificando proprio per le esperienze adesso a me note e per avere ascoltato con più attenzione alcuni dibattiti politici, filosofici e clinici su alcune persone come Terry Schiavo, Piergiorgio Welby e non ultimo il caso Eluana Englaro. Il governo si interessa oggi agli stati vegetativi e al testamento biologico dopo la morte di Eluana, tenendo in considerazione principi etici, di libertà, di scelta; c’è chi proclama la vita e chi denuncia la realtà della loro morte. Il diritto alla vita e alla morte, temi connessi a ciò che è la persona a priori.
Fino ad un mese fa confusamente anch’io mi chiedevo una serie di cose e, pur riconoscendo una certa confusione ed incertezza, credevo di poter sostenere che le persone in stato vegetativo non sono propriamente persone, perché non avendo una mente è come se non avessero nemmeno emozioni e affetti. Poi nel mese di marzo di quest’anno ho visitato un reparto di Stati Vegetativi e mi sono resa conto che la questione è molto più complicata di quanto sembri.
Le persone in stato vegetativo sono vive, ma non hanno attività cerebrale corticale, a differenza delle persone dichiarate in morte cerebrale in cui non vi è attività cerebrale, né corticale né sottocorticale.
In fase post acuta, cioè dopo l’evento causa della “morte corticale” (e qui i fattori scatenanti possono essere tantissimi: traumi ambientali, infezioni, episodi cerebrovascolari, altre malattie), le persone in SV vengono stabilizzate clinicamente attraverso anche l’utilizzo di macchinari, dopo di che esse sono incredibilmente autonome. Respirano autonomamente, cioè senza l’aiuto del respiratore; vengono nutrite attraverso una PEG (Gastrostomia Endoscopica Percutanea), cioè una sonda attraverso la quale i cibi frullati vengono fatti arrivati allo stomaco e da li digeriti grazie al processo digestivo conservato; hanno il ritmo circadiano che regola sonno – veglia abbastanza conservato; tengono gli occhi aperti.
Vedendo queste persone si pensa a tante cose, si creano tante immagini dentro di se, ma non certo quella di una persona senza vita. Non c’è coscienza, ma c’è vita.
La mia esperienza è una goccia nell’oceano, ho visto queste persone solo una volta, ho visitato un reparto dove da anni sono ricoverati una ventina di persone in SV, ho parlato con gli operatori e poi riflettuto dentro di me sui temi prima sollevati.
Un reparto che si occupa di SV lo immaginavo come un luogo di sofferenza, di morte e di dolore, come il luogo dove non c’è pensiero e pensabilità, ma solo l’evidenza di un corpo segnato e di una mente assente. In realtà non solo c’è il pensiero e le emozioni, ma ce ne sono più che in un normale reparto dove forse la maggior comunicabilità del corpo di converso satura il pensiero o dove il pensiero intellettuale e scientifico non lascia spazio alle emozioni del dolore e della sofferenza.
In quel luogo, luminoso e arioso (e non opprimente come lo avevo immaginato), pieno di persone che lavorano e che con passione, fatica e grande sforzo cercano di trovare un senso a quella mente assente, ho trovato grande energia e umanità.
La capo sala e il medico responsabile del reparto conoscono ogni paziente, la loro storia e la loro vita con precisione, cura e attenzione. Il giorno della nostra visita ci hanno, con una punta di orgoglio, mostrato il loro reparto, i loro pazienti e il loro lavoro. Che è un grande lavoro.
Di là dalle suggestioni che possono intercorrere, di là da quello in cui ognuno di noi può credere, quello che ci hanno raccontato è forte, emozionante e vitale.
In quel reparto non c’è morte, ma c’è vita. Quando sono entrata in reparto ho creduto di sentire un “campo emotivo” così intenso e stupefacente da restar senza parole.
I pazienti ogni mattina vengono lavati, vestiti, accuditi. Al mio arrivo in reparto stanno tutti davanti alla televisione. I familiari hanno libero accesso al reparto e con negazione o con un briciolo di speranza spesso trascorrono intere giornate accanto ai loro figli.
Le storie di quel reparto sono commoventi, sono storie di riconoscimento, di relazioni, d’identità fragili che vengono accolte su un registro che non è quello della mente, ma è quello del corpo, di un corpo che non è morto, di un corpo che respira, che ha bisogno di essere accolto, curato ed accudito.
E forse per un bisogno di vitalità che scaturisce dall’angoscia di vedere uomini e donne giovani in stato vegetativo, quando ripenso a quel giorno penso ad una nursery. Questo è l’unico luogo che mi viene in mente in cui ci sia un corpo fragile e dipendente in tutto e per tutto e in cui non ci sia ancora una mente corticale evoluta. È un paragone forte, ma è l’unico che mi viene, forse perché ricordo alcuni sguardi spaesati ma presenti, forse perché anche un neonato senza assistenza e cure amorevoli non potrebbe vivere.
Nella nursery la mente del bambino è “primitiva” perché deve ancora evolversi ed emanciparsi, così la mente delle persone in SV è “primitiva” perché è regredita.
In entrambi i casi il soma è preponderante sullo psichico, perché lo psichico come lo immaginiamo non esiste ancora o è esistito, ma adesso non c’è più.
Quest’immagine è ancora più prepotente se penso ad altre esperienze conosciute come di quelle di coloro che si “svegliano” dal coma e che riversano in stati di grande aggressività ed emozioni primitive. O al caso dei malati terminali di Alzheimer che non parlano e non riconoscono più i familiari, ma che soffrono e provano emozioni e affetti come tutti. Penso ai bambini con le paralisi cerebrali, o a quelli con grave autismo, penso ai nostri pazienti psichiatrici con grave isolamento o catatonia. E più penso a queste persone ed a questi bambini più l’idea della morte si allontana lasciando posto all’idea che ci sia fragilità, disabilità, angoscia per una difficile situazione di vita, ma non la morte.
Allora mi chiedo se quelle emozioni e quella sensorialità non siano legate non solo alle emozioni prima del pensiero, ma forse anche all’inconscio prima della mente e del pensiero. L’inconscio come base somatica e primitiva e narcisistica del pensiero, come substrato biologico della mente.
Le problematiche tra corpo e mente, poi, investono fortemente gli operatori che creano quasi una “mente ipertrofica” per compensare il pensiero che manca nella relazione con l’altro. Nella relazione con queste persone tutto verte sul sensoriale, sull’interpretazione dell’altro al di là delle parole, su un registro che non è immediatamente pensabile, ma che è nell’immediatezza dell’agito e dei vissuti degli operatori, essenziale e vitale. E nell’importanza del percetto, dell’emozione dell’altro e dell’interpretazione del senso del gesto che non posso che pensare al lavoro del terapeuta sul corpo, sui silenzi, sugli agiti, su quanto di impercettibile e non immediatamente pensabile c’è nella relazione.
Gli operatori che ogni giorno per non guardare la realtà forse si muovono nel senso della negazione, o forse nella tollerabilità della frustrazione di una relazione priva di alcuni registri diventano, in grado di sviluppare un pensiero costante, illuminato, emotivo, sensoriale attraverso il quale accogliere la persona in SV. E questo pensiero e questo accoglimento, fanno si che l’altro in SV non sia un vegetale, ma una persona.
È quasi come se questi operatori siano il contenitore di un fragile contenuto emotivo ed affettivo, come se essi svolgano la funzione di rêverie, come se essi tocchino e curino riconoscendo l’altro come persona ed in questo diano senso a se, al proprio lavoro e all’altro. Un rapporto tra significante e significato, un legame che da senso e che trasforma, forse, il vuoto in pensiero, che sia anche solo per quegli operatori e quelle famiglie che vivono intorno a questa dimensione di difficile pensabilità.
Queste situazioni sono al limite, sono patologie gravi in cui il corpo è presente e forse ingombrante e la mente? E il pensiero? E le emozioni e gli affetti? Se pensassimo che le emozioni in una persona in SV non esistono, queste persone oltre a non avere un pensiero forse non avrebbero neanche una anima, ma se pensassimo che, come in altre situazioni come quelle citate o nelle persone con patologia degenerative (es. il film lo scafandro e la farfalla), non ci sia il pensiero, ma l’emozione come cambierebbe il nostro modo di vedere queste persone? Le guarderemmo ancora come stati vegetativi – vegetali senza pensiero e senza anima?
Alcuni medici sostengono attraverso prove scientifiche che non c’è vita in persone, altri provano che stimolando queste persone qualche attività corticale ancora c’è. Altri ancora difendono queste persone per motivi etici e religiosi, per difendere la libertà della vita e per promuovere il diritto alla vita e alla morte. Personalmente non so come collocarmi, anche perché faccio fatica a capire cosa proverei io se fossi in SV o se ci fosse una persona cara. So soltanto che per gli operatori che ogni giorno lavorano con queste persone, queste non sono morte, sono persone vive e piene di bisogno, così come i nostri bambini, i malati di SLA, i bambini in paralisi cerebrale, le persone affette da gravi patologie degenerative.
La capo sala del reparto che ho visitato è certa che queste persone riconoscano le persone familiari dagli estranei (come i neonati con l’angoscia dell’ottavo mese), dichiara candidamente e con fermezza che ci sono giorni in cui Tizio o Caio sono più nervosi o più contenti, che a seconda di come vengono trattati (si entra e si saluta sempre) la loro postura e i loro volti cambiano. Ci sono persone che davanti ad una finestra aperta sul giardino sorridono o che davanti ad un familiare che non vedono da tempo piangono. È difficile spiegare quanto queste cose siano reali, frutto di proiezioni e di suggestioni, ma ancora una volta mi torna in mente il neonato e la sua mamma ed il meccanismo del sorriso sociale che scientificamente è considerato un riflesso che serve a “incoraggiare” la relazione con la madre. E allora perché i sorrisi di queste persone e le loro lacrime devono essere visti come “scherzi della natura” e non come primitivi modalità di comunicazione alla stregua dell’infante?
Tutte queste considerazioni sono solo degli spunti di riflessione che aprono probabilmente altre questioni di tipo clinico, etico, politico e quant’altro. E credo che valga la pena interrogarsi su queste questioni, su quale sofferenza c’è dentro queste persone e su come poterla accogliere in qualità di psicoterapeuta.
Come poter dare senso ad alcuni aspetti dell’esperienza umana molto distanti dalla nostra esperienza? Come organizzare il nostro lavoro clinico – psicoterapeutico? Partendo da quanto noto o cominciando a pensare ad un modello di cura che parta da presupposti diversi?
Tutte queste considerazioni valgono, anche se pensiamo al dispositivo della cura per i familiari. Pur riservando la cura e l’accoglienza verso di loro, non dobbiamo mai dimenticare che la loro domanda si connette profondamente alla loro esperienza con un familiare molto malato. E non è soltanto una questione di lutto, nuovi studi dimostrano che lo stato di sofferenza in cui riversano i familiari di persone malate cronicamente e di patologie degenerative vertono in uno stato di grande stress e sofferenza ma che non è tipicamente del lutto, ma di queste esperienze di vita. Allora ritorna il tema della diversità di approccio, e credo della necessità di rivedere alcuni aspetti della cura e ripensarli