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Le solitudini estreme

Le solitudini estreme

Premessa

 La condizione umana della nascita e della morte sono due estremi che hanno in comune la fragilità e la dipendenza dagli altri e che richiedono  accoglienza e  cura.  Entrambi necessitano di una famiglia e di una casa dove vivere l’evento.

Il legame famigliare è caratterizzato dall’accoglienza e dall’umanizzazione dove si vive e si sperimenta la donazione e la fiducia, che rimarrà un ricordo indelebile per tutta la durata della propria esistenza e che si riattualizzerà quando la propria autonomia diminuirà ed aumenterà la necessità di dipendere dalle cure altrui.

Ma la famiglia come istituzione culturale è soggetta alla storia e alle sue trasformazioni: siamo passati da una struttura rigida dei ruoli e dei valori ad una liquida dove ognuno deve essere estremamente duttile ed elastico, caratterizzato dall’omogeneità dei ruoli, con conseguente ricaduta sui figli; e dal conformismo alle idee e valori dominanti. Ne fanno le spese le diversità, la capacità di critica costruttiva e la responsabilità all’interno della famiglia.

 La  nostra società è del tipo consumista,   caratterizzata dalla soddisfazione immediata dei bisogni, del piacere e dall’assenza del limite “perché no” proprio come nel paese dei balocchi di Pinocchio.

 Tutto questo intasamento ed eccesso di godimento si scontra però con la realtà della vita quotidiana che è  dettata dal  limite: un limite è la Natura  e la Natura del Corpo Umano e quindi della Salute e della Malattia  e della decadenza e della Morte. La conseguenza è la negazione del limite, di questo aspetto di realtà   della vita: di conseguenza quando l’essere umano invecchia o si ammala  è costretto in un profondo isolamento sociale , con un grande senso di solitudine, infatti non esiste una rappresentazione sociale della morte poichè  siamo nella società definita Post Mortale, dove la morte è presente, ma solo accidentalmente.

  La   medicina ufficiale è anch’essa l’espressione della nostra società, si esprime con una modalità tecnologica e assettica. I medici fanno sempre più fatica a far accettare al paziente e ai suoi famigliari i limiti della clinica sino ad arrivare all’accanimento terapeutico, al medico viene delegato il compito del mantenimento della salute a tutti i costi (0nnipotenza e no limits) Sempre più si utilizzano psicofarmaci  per rispondere al disagio e alla sofferenza   del vivere e del morire.

VIDAS è nata 30 anni fa nell’ambito della medicina e specialistica delle Cure Palliative per poter proporre il proprio modello assistenziale ai malati terminali di cancro prima, e di altre patologie poi. Con il presupposto che anche l’ammalato grave, così come un bambino piccolo ha bisogno di essere riconosciuto per la sua unicità, di  possedere la propria identità con un nome proprio, con le sue radici, di un’alleanza simbolica con il proprio nucleo famigliare, di una casa.  Pertanto necessità di Cure adeguate e  personalizzate che vengano confezionate da Vidas su misura, come degli abiti (dal latino Pallio) e che si modificano nel tempo in base ai cambiamenti fisici, psichici e del proprio contesto famigliare e sociale. L’assistenza veniva e viene fornita prevalentemente nelle case degli ammalati, e ormai da 10 anni anche in hospice: Casa Vidas con lo scopo di dare una mano e un sollievo ai famigliari e il loro malati che necessitano di una Casa più adeguata alle loro necessità contingenti.

 

La solitudine del Morente

Nella nostra società è aumentata la distanza culturale tra i vivi e i morti (abolizione del rito del lutto ) e quella tra i viventi e i morenti (delega alle strutture sanitarie). La tecnologia, la scientificità, l’igienicità hanno cercato di dare un volto più civile alla morte per addomesticarne la paura, poiché nella nostra cultura la morte rappresenta il limite finale, mentre per altre culture essa è solo un passaggio in un altro tipo di vita. Ne consegue che nei manuali di medicina oncologica le Cure Palliative sono rilegate all’ultimo capitolo . Questa disciplina  non è ancora concepita come un approccio medico filosofico alla malattia cronica per affrontare il sintomo del dolore e degli effetti collaterali sgradevoli delle terapie attive; questo  faciliterebbe l’ introduzione nel dialogo medico-paziente del concetto di “ limite”  sin dal suo insorgere.   Non è pedagogico colludere con le aspettative magiche del paziente e stimolare l’onnipotenza del medico-uomo, mentre sarebbe etico riconoscerne i limiti.  Invece le Cure Palliative  sono sinonimo di fallimento, che non c’è più nulla da fare e quindi si ripropone  quel limite che la mente individuale e sociale non vuole accettare, conseguenza concreta è l’introduzione della  “ chemioterapia compassionevole.” Invece  la realtà dell’essere umano e quindi anche del morente è caratterizzata  dal limite: della longevità, della forza fisica, dell’autonomia, nella consapevolezza che tutti abbiamo bisogno di tutti, nessuno si salva da solo!

  • Il malato si sente solo, distaccato e lontano dai valori sociali, ma soprattutto si sente un peso per i propri cari e pertanto si sente anche in colpa di essere malato, le donne ancora di più….
  • Ma la solitudine è anche all’interno del nucleo famigliare dove il malato stesso non si sente di esprimersi liberamente perché sente ancora il pudore dettato dal proprio ruolo famigliare, e anche il timore di far soffrire l’altro per la condivisione del suo dolore e della sua paura.
  • Spesso vi è anche un senso di solitudine verso se stessi, colpevoli di aver rinunciato in passato  alla ricerca della propria autenticità per motivi vari o necessità altrui.
  • Anche per noi la sfida attuale è l’assistenza al malato extracomunitario, che ci ha fatto ancora di più capire cosa è la solitudine estrema, dove il malato si sente estraneo a se stesso, perché non può accettare la propria morte, perché lui è qui per mandare i soldi alla propria famiglia all’estero, che spesso non è informata e che li sta aspettando per costruire la loro casa.
  • Non capiscono e non si sentono incompresi da noi soprattutto nell’ambito della medicina, per esempio non capiscono la differenza tra esami diagnostici ed interventi curativi, dicono di Si, ma non capiscono perché le loro basi culturali sono troppo lontani dalle nostre. Grazie a loro abbiamo capito che per conoscere una persona devi conoscere un popolo.
  • Ma la solitudine Estrema tra le solitudini estreme è rappresentata dall’ingiustizia della malattia e della Morte di un Bambino, questa urla vendetta. I genitori fanno fatica a mantenere un equilibrio perché l’evento è contro la nostra natura di genitori , perché quando mettiamo al mondo un figlio lui dovrà sopravvivere a noi.

 Ancora una volta quello che è importante sono i legami affettivi: sentirsi importanti per qualcuno, e sapere che potremo sopravvivere nella memoria di chi resta

La Solitudine dei Famigliari

Il termine Care giver individua quella persona che all’interno di una famiglia si fa carico maggiormente delle cure e dell’assistenza pratica e quotidiana del paziente e ne è maggiormente coinvolto emotivamente. Attualmente i nuclei famigliari sono sempre più ridotti, spesso due e a volte il care giver è anche anziano. Pertanto necessita sempre più il ruolo  della badante, che sempre più spesso rappresenta l’unica figura di riferimento per il medico e l’infermiere, perché i figli sono lontani o assenti.

La malattia terminale è spesso solo l’epilogo di una lunga malattia che come quella oncologica coinvolge psicologicamente tutto il nucleo famigliare, dove ogni progettualità viene bloccata e si passano gli anni coinvolti e sconvolti tra speranze e delusioni. Pertanto il care giver è esausto nella lunga battaglia passata a fianco del malato, dove spesso si è sentito solo perché lo hanno o si è caricato di responsabilità riferite alla malattia del proprio caro, dove ha voluto o dovuto tacerne la verità per amore e protezione, spesso i medici hanno riferito a lui\lei le cattive notizie e ha dovuto assorbirle e bonificarle per l’intento di mantenere alta la speranza e fede nelle cure e della vita.

Spesso il Vidas propone ai propri malati la possibilità di un ricovero in hospice con lo scopo di sollevare il care giver che può se vuole soggiornare accanto al malato, ma senza la responsabilità dell’accudimento continuo. Ma questa formula assistenziale provoca a volte un senso di colpa del famigliare che ha delegato l’assistenza del proprio caro ad una struttura sanitaria, per prevenire questo problema noi cerchiamo di coinvolgere il famigliare nell’assistenza pratica del paziente.

 Ma il sentimento di solitudine estrema, cioè dell’isolamento  continua anche dopo il decesso del paziente.  La vita del care-giver che prima era occupata al 100% dall’assistenza al malato, da molti anni tutto girava intorno a lui e  il tempo  era scandito solo dai risultati di esami clinici, tra speranze e delusioni. L’organizzazione domestica girava intorno al letto e ai farmaci e i presidi sanitari  riempivano la casa, questa era  frequentata dal medico, infermiere, spesso fisioterapista, psicologo e volontari, ed  anche l’assistente sociale ti telefonava per chiedere come va!. Dopo la morte tutto si ferma, tutto tace e la società moderna non si occupa del dolore della perdita e del lutto, che ormai è diventato un nuovo trauma d’affrontare e d’ attraversare.

 La Solitudine dei Curanti

Lavorare nelle Cure Palliative è una scelta professionale specifica che però non deve essere confusa con una missione, ma esula dalle grandi manovre e competizioni della medicina . Coloro che vi si dedicano devono avere una personalità adulta, matura e consolidata, quindi duttile, adattabile  alle esigenze del paziente e del suo ambiente.  Anche la professionalità dovrà essere di buon spessore per permettergli di poter tollerare la Solitudine.

Le solitudini dell’operatore sanitario a cui va incontro sono:

  • La solitudine in ambito sociale e scientifico in quanto lavorare per migliorare la fine della vita, vuol dire lavorare nel “binario terminale” della medicina. A livello sociale tutti riconoscono la bontà dell’operato umanitario, ma fanno fatica a riconoscerne le caratteristiche scientifiche e cliniche, un medico di serie B
  • Lavorare a domicilio vuol dire lavorare da soli a casa del paziente, fuori dalle cattedrali della scienza e della medicina, dagli Ospedali ed Istituti di Ricerca Oncologica. Vuol dire conquistarsi la fiducia del paziente e dei suoi famigliari non perché appartieni ad un reparto di prestigio, ma perché conquisti credibilità giorno per giorno mettendoti alla prova nell’affrontare le difficoltà.
  •  La solitudine nel non sentirsi riconosciuti istituzionalmente e clinicamente, quando i pazienti ci vengono inviati da altri medici  per fare della fisioterapia o delle cure “per tirarsi su”.
  •  La solitudine nel sentire che in quel periodo dell’assistenza la tua persona che rivestiva un ruolo prioritario non è più  importante, perché sono cambiate le necessità del paziente e che quindi sono investiti d’importanza altre persone e professioni, per esempio un volontario di nome Luigi.
  •  La difficoltà di sentirsi inascoltati da pazienti che hanno scelto di essere contornati da medici che utilizzano terapie omeopatiche che possono contrastare con quelle date dal medico Vidas e quindi valutare in equipe quanto riusciamo a starci dentro senza troppo starci male

Vidas  lavora nell’ambito della della medicina di Fine Vita (ossimoro) quindi opera in un territorio di frontiera tra la vita e la morte. Nella lingua spagnola VIDAS vuol dire Vite ed ha cercato di rispondere a queste solitudini estreme lavorando:

  • organizzando un day hospice quando il paziente ha una buona autonomia fisica ed esce di cassa: un pulmino guidato da un volontario viene a prendere il domicilio il malato e lo porta in Casa Vidas dove rimane tutto il giorno facendo la visita medico/infermieristica, la fisioterapia il colloquio con lo psicologo se lo desidera, ma soprattutto può distrarsi in gruppo con altri malati ed educatori in gruppo attraverso terapie diversionali ed artistiche
  • Quando il paziente non ce la fa più a muoversi è l’equipe  intera che va a casa del paziente e se ce n’è bisogno organizza un periodo ricovero nella Casa Vidas.
  • Dopo il decesso si creato un servizio per il supporto al lutto, si chiama Passaggi. E’ un intervento richiesto dai famigliari dei pazienti, ma anche allargato anche ad altre persone che hanno perso un congiunto. Questo servizio gestito da psicologi e dai gruppi di auto-mutuo aiuto.

Vidas in questi 30 anni ha cercato di mantenere fede al suo mandato etico:  quello di combattere La Solitudine  del Malato e della sua famiglia, accettando di attraversare il caos, di togliere la colpa  nelle vicissitudini emotive separative. Convinti che la cura può muovere emozioni, innaffiando il deserto della indifferenza e allargando il campo della conoscenza. Riconoscendo il limite dell’inconoscibilità dentro  noi e del nostro corpo, che nonostante tutto funziona anche da solo. Grazie per non averci mai lasciati soli!

 CONCLUSIONI

 Sempre di più nella nostra società si evitano discorsi relativi ai limiti dell’esistenza e della presenza della morte,  siamo invece sollecitati da una cultura post-moderna caratterizzata da valori  dell’onnipotenza dell’uomo e della tecnica, ma anche  caratterizzata da una visione catastrofica , perdendo speranza e fiducia nel futuro, si predilige la velocità rispetto l’approfondimento, gli occhi rispetto le orecchie. Sempre di più in questa società e nella sua medicina vi sono difese rispetto alla relazione umana e alla morte e quindi ci si chiede se il problema sta nel  paziente o anche nel terapeuta? Forse la risposta sta nel fatto che le difese rispetto la consapevolezza  sono di due tipi: l’idealizzazione e l’ignoranza.