L’importanza di sentirsi qualcuno
Con il termine conformismo o conformità si fa riferimento a una tendenza ad adeguarsi a opinioni, usi e comportamenti già definiti in precedenza, E’ una condizione che potremmo definire “la miseria psicologica della massa”. L’origine del conformismo risiede nella radice animale dell’essere umano che attinge le sue paure dalla solitudine fuori dal branco. È una sorta di comportamento mimetico: l’individuo si nasconde nell’ambiente sociale nel quale vive, assumendone i tratti più comuni, in termini di modi di essere, di fare, di pensare. Il senso di protezione che ne deriva rafforza ulteriormente i comportamenti conformisti.
Questo pericolo incombe maggiormente dove il legame sociale è stabilito soprattutto attraverso l’identifiazione reciproca dei vari membri, cioè ognuno si rispecchia nell’altro e in questo rispecchiamento si cerca di cogliere solo gli aspetti vincenti e di valore per quel gruppo di riferimento, quindi la nostra società si è strutturata in vari gruppi: giovani, adulti, uomini, donne, singles e corporazioni, è una sorte di selezione a strati, uno contro l’altro, dettati dalla forza contrattuale e da interessi egoistici individuali che vengono supportati dall’interno del singolo gruppo d’appartenenza. Gruppo contro gruppo.
Da tutto questo nascono i pregiudizi e gli stereotipi. Il pregiudizio altera l’esame di realtà e l’esperienza, è come un’ombra che ci precede e che può essere l’origine di tanti comportamenti discriminatori, spesso nei confronti dei gruppi socialmente più fragili (anziani, giovani, malati, extracomunitari: il “diverso” rispetto il gruppo di potere) che penalizza la singola persona che non viene valutata per quello che è, ma per l’appartenenza al gruppo o alla categoria. Il pregiudizio nasce anche dalla rimozione sociale “occhio che non vede cuore che non duole” e da quello che in psicoanalisi viene definita Identificazione Proiettiva, “cioè vedo la pagliuzza negli occhi degli altri e non vedo la trave nel mio occhio” attribuisco un giudizio negativo all’altro per non fare i conti con i miei in me stesso Mentre lo stereotipo è un tipo di pensiero rigido, ingessato e generalizzato con orientamento al passato e chiusura al cambiamento. Così avviene nella nostra società nei confronti degli anziani. Infatti la vecchiaia è sinonimo di: decadimento – malattia – inverno e crepuscolo – i vari sintomi psicofisici che insorgono l’età avanzata vengono subito interpretati come inizio di una patologia neurologica senile.
La nostra società del tipo consumista è caratterizzata dalla soddisfazione immediata dei bisogni, del piacere e dall’assenza del limite “perché no” proprio come nel paese dei balocchi di Pinocchio.
Tutto questo intasamento ed eccesso di godimento si scontra però con la realtà della vita quotidiana che invece è caratterizzata dal limite che invece esiste in Natura, nel Corpo Umano e quindi nella Salute e nella Malattia , nella decadenza e della Morte. La conseguenza è la negazione della vecchiaia e l’isolamento dell’anziano, e quando l’essere umano invecchia o si ammala gravemente è costretto in un profondo isolamento sociale , con un grande senso di solitudine, una specie d’eutanasia d’abbandono.
In questo conformismo si comunica tendenzialmente per estremi: bianco-nero, buono-cattivo, freddo-caldo, forte-debole perché non si tollera la fatica di un giudizio fatto di sfumature, fatto di riflessioni soggettive, ma si mette solo la crocetta su vero o falso per rispondere ad una domanda del compito. Nei confronti dell’anziano vi è un pensiero culturale massificato del tipo: tanto non ci arriva!…..non è vero ha solo bisogno di più tempo per alcune attività mentali rallentate, ma mai annientate. Quindi anche l’anziano è figlio lui stesso di questi pregiudizi e la conseguenza e che spesso l’anziano combatte i propri limiti, invece di adattarvisi al meglio, lo si vede nei confronti delle badanti, tanto amate/odiate o l’approccio ritardato a protesi che evidenziano il limite della propria autonomia.
La nostra società raccoglie gli anziani nei recinti sociali come ad esempio i giardini con bocciofile, centri ricreativi, case per anziani…è una Identificazione Proiettiva, una reazione per quanto detto sopra, uguale a quella fatta prima degli anni ‘80 nei confronti dei malati mentali e dei manicomi. Alcuni percepiscono le Case per Anziani come un luogo, un contenitore dove vengono depositate le persone inutili e malate. Vi è la tendenza sociale ad allontanare e dividere, etichettando come malato il diverso dal gruppo dominante, dividendo nettamente i sani dagli ammalati, per stare dalla parte dei sani e quindi dei più forti.
La medicina è anch’essa l’espressione della nostra società, si esprime sempre più con una modalità tecnologica e asettica. I medici fanno sempre più fatica a far accettare al paziente e ai suoi famigliari i limiti della clinica sino ad arrivare all’accanimento terapeutico, al medico viene delegato il compito del mantenimento della salute a tutti i costi (onnipotenza e no limits) Sempre più si utilizzano psicofarmaci per rispondere al disagio e alla sofferenza del vivere e del morire. Al giorno d’oggi la morte è un tabù, non si vede e non se ne deve parlare. Infatti non esiste una rappresentazione sociale della morte perché siamo in società definita Post Mortale, dove la morte è presente, ma solo accidentalmente
Nella nostra società è aumentata la distanza culturale tra i vivi e i morti (abolizione del rito del lutto ) e quella tra i viventi e i morenti (delega alle strutture sanitarie). La tecnologia, la scientificità, l’igienicità hanno cercato di dare un volto più civile alla morte per addomesticarne la paura, poiché nella nostra cultura la morte rappresenta il limite finale, mentre per altre culture essa è solo un passaggio in un altro tipo di vita.
Invece la realtà dell’essere umano è caratterizzata dal limite: della longevità, della forza fisica, dell’autonomia, nella consapevolezza che tutti abbiamo bisogno di tutti, nessuno si salva da solo! Di conseguenza:
- I’anziano si sente solo, distaccato e lontano dai valori sociali, ma soprattutto si sente un peso per i propri cari e pertanto in colpa , le donne ancora di più….
- Ma la solitudine è anche all’interno del nucleo famigliare dove l’anziano non si sente libero di esprimere liberamente per il timore di far soffrire l’altro con il suo dolore e la sua paura.
- Spesso vi è anche un senso di solitudine verso se stessi, colpevoli di aver rinunciato in passato alla ricerca della propria autenticità per motivi vari o necessità altrui.
- Anche per noi la sfida attuale è l’assistenza al malato extracomunitario, che ci ha fatto ancora di più capire cosa è la solitudine estrema, dove il malato si sente estraneo a se stesso, perché non può accettare la propria morte, perché lui è qui per mandare i soldi alla propria famiglia in patria. Grazie a loro abbiamo capito che per conoscere una persona devi conoscere un popolo.
La Solitudine dei Famigliari
Il termine Care giver individua quella persona che all’interno di una famiglia si fa carico maggiormente delle cure e dell’assistenza pratica e quotidiana dell’anziano e ne è maggiormente coinvolto emotivamente. Attualmente i nuclei famigliari sono sempre più ridotti, e quasi sempre e se c’è il care giver è anche lui anziano. Pertanto necessita sempre più il supporto di una badante, che sempre più spesso rappresenta l’unica figura di riferimento per il medico e l’infermiere, perché i figli sono lontani o assenti.
La presenza in famiglia di una persona con una malattia cronica grave coinvolge psicologicamente tutto il nucleo famigliare, dove ogni progettualità viene bloccata tra speranze e delusioni. Pertanto il care giver è esausto nella lunga battaglia passata a fianco del malato, dove spesso si è sentito solo perché lo hanno o si è caricato di responsabilità riferite alla malattia, spesso si sente in colpa intrappolato tra la stanchezza e la speranza.
In questi casi si possono proporre agli anziani ammalati la possibilità di un ricovero in una casa di riposo con lo scopo di aiutare care giver, sollevandoli dalla responsabilità dell’accudimento continuo. Ma questa soluzione ha il prezzo della colpa per la delega della cura del proprio caro ad una struttura sanitaria. Per prevenire questo problema si consiglia di coinvolgere il famigliare nell’assistenza pratica del paziente.
Ma il sentimento di solitudine estrema, cioè dell’isolamento continua ancora di più dopo il decesso del paziente. La vita del care-giver anziano che prima era occupata al 100% dall’assistenza al malato e l’organizzazione domestica girava intorno al letto e ai farmaci e i presidi sanitari riempivano la casa. Dopo la morte tutto si ferma, tutto tace e la società moderna non si occupa del dolore della perdita e del lutto, che ormai è diventato un nuovo trauma d’affrontare e d’ attraversare.
La Solitudine dei Curanti
Lavorare nell’ambito geriatrico è una scelta professionale specifica che però non deve essere confusa con una missione, ma esula dalle grandi manovre e competizioni della medicina . Coloro che vi si dedicano devono avere una personalità adulta, matura e consolidata, quindi duttile, adattabile alle esigenze del paziente e del suo ambiente. Anche la professionalità dovrà essere di buon spessore per permettergli di poter tollerare la Solitudine.
Le solitudini dell’operatore sanitario a cui va incontro sono:
– La solitudine in ambito sociale e scientifico in quanto lavorare per migliorare la fine della vita, vuol dire lavorare nel “binario marginale” della medicina. A livello sociale tutti riconoscono la bontà dell’operato umanitario, ma fanno fatica a riconoscerne le caratteristiche scientifiche e cliniche.
– Lavorare in una R.S.A. o a domicilio vuol dire lavorare da soli a casa del paziente, fuori dalle cattedrali della scienza e della medicina, dagli Ospedali ed Istituti di Ricerca . Vuol dire conquistarsi la fiducia del paziente e dei suoi famigliari non perché appartieni ad un reparto di prestigio, ma perché conquisti credibilità giorno per giorno mettendoti alla prova nell’affrontare le difficoltà.
CONCLUSIONI
Sempre di più nella nostra società si evitano discorsi relativi ai limiti dell’esistenza, siamo invece sollecitati da una cultura post-moderna caratterizzata da valori dell’onnipotenza dell’uomo e della tecnica, ma anche caratterizzata da una visione catastrofica , perdendo speranza e fiducia nel futuro, si predilige la velocità rispetto l’approfondimento, gli occhi rispetto le orecchie. Sempre di più in questa società e nella sua medicina vi sono difese rispetto alla relazione umana e alla morte e quindi ci si chiede se il problema sta nel paziente o anche nella società? Forse la risposta sta nel fatto che le difese rispetto la consapevolezza sono di due tipi: l’idealizzazione e l’ignoranza. Una società che si vuole definire civile e matura non dovrebbe dividere e nascondere quello che è diverso da te, ma riconoscere che lui è anche una parte di te stesso, perché abbiamo visto che se chiudiamo gli occhi per non vedere i nostri limiti, poi questi diventano delle ombre che ti seguono diventando poi un tabù che richiede continui esorcismi come quello del mantenimento dell’eterna giovinezza e della bellezza esteriore che ci appesantiscono la vita. Nel terzo millennio dovremo ritrovare una cultura non più fatta d’opposti come la giovinezza – vecchiaia, salute -malattia, vivo-morto, individuo-gruppo ma vedere come ogni cosa è intrecciata con il suo opposto: nel giovane d’oggi c’è l’anziano di domani e nell’anziano di oggi c’è il giovane di ieri. Non contrapporre eros e thanatos, ma tendere ad un’atropia cioè alla ricerca di quello che accomuna e non quello che divide, così come il senso delle regole comunitarie attraverso la fratellanza, ben espressa nella tragedia greca Antigone di Sofocle.