Il senso di colpa del care giver
Quando si assiste un malato grave, anche se ci sono tante figure ad occuparsi del suo bisogno di cure e assistenza, c’è n’è sempre una, un parente, un amico, o addirittura qualcuno del personale sanitario, che ha un ruolo preminente. E’ chiamato in inglese e nel gergo medico “care giver” e nella maggioranza dei casi è una persona particolarmente vicina al malato, il coniuge, un figlio, una sorella, un parente stretto …. insomma è il primo referente del paziente ed è la prima persona con cui i medici parlano, colui –o colei- che si fa interprete del paziente quando questo non è più in grado di esprimere la sua volontà o i suoi bisogni.
Quando ci sono legami affettivi, chi assiste un malato grave è in una situazione particolarmente difficile: non dispone di solito delle conoscenze che hanno i sanitari ed è penalizzato dall’affetto: occuparsi di una persona cara che soffre è estremamente faticoso perché è psicologicamente doloroso.
Accudire un malato grave, soprattutto se morente, significa per il care giver avere a che fare con ricordi belli e brutti della vita passata, significa rivivere gioie e rabbie e in definitiva è portato a riesaminare la propria vita: quanto più il legame affettivo è stretto, quanto più ciò sarà vero.
E poi non si parla mai di un altro aspetto, per quanto per un care giver sia devastante veder soffrire una persona cara, nella miscellanea di sentimenti che prova ce ne sono di inconfessabili; quando ero agli inizi della carriera, ad un giovane uomo, che aveva appena perso la moglie dopo una lunga battaglia contro un tumore, avevo espresso un commento sulla sofferenza dovuta al distacco e lui mi ha risposto con enfasi mista a imbarazzo “è vero dottore, io la amavo tanto, ma ho desiderato che morisse, non ce la facevo più”.
Ho poi presto verificato che succede molto spesso: chi assiste un malato incurabile desidera che la persona non soffra più, ma così implicitamente sta desiderando la sua morte come una liberazione; è giustamente stanco per la fatica fisica e per la prolungata tensione che la situazione genera, così si sorprende a pensare a qualcosa che potrebbe abbreviarne la durata; ed è un pensiero che da sollievo e insieme grandi sensi di colpa: ci si vergogna di pensieri ed emozioni che appaiono sbagliati, riprovevoli o impietosi.
Eppure sono anch’essi parte di noi, pensieri per molti di noi inconfessabili ma che sono solo una forma di autodifesa della nostra psiche che, per vivere serenamente, vorrebbe essere altrove.