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Vissuti di una Psicologa ai tempi del Coronavirus

Posted by on 22:09 in Psicologia, Riflessioni | 0 comments

Vissuti di una Psicologa ai tempi del Coronavirus

Prima di essere una psicologa sono un essere umano con dei propri stati d’animo e vissuti come tutte le persone. Questo momento catastrofico di emergenza sanitaria nazionale indistintamente fagocita tutti, nelle modalità più disparate ma con una matrice comune di drammaticità che coinvolge ognuno e che risulta essere ormai non più arginabile, proprio come uno tsunami che travolge una realtà creando una frattura improvvisa tra un prima e un dopo. Tutti senza distinzioni stiamo vivendo momenti di paura, solitudine, angoscia, perdita, impotenza, cesura con la socialità, ciò che ci contraddistingue singolarmente risiede nell’intensità con cui ciascuno di noi li vive, come tamponiamo e ce ne difendiamo, e alle risorse interne a cui attingiamo per farvi fronte. Impensabile ormai come questo fenomeno non possa impattare sulle nostre esistenze che per quanto singolari rimandano intrinsecamente ad un immaginario collettivo costellato da fattori emotivi trasversali. Tutto è cambiato, la quotidianità è sovvertita, la mia vita è cambiata, la mia quotidianità è cambiata sia da un punto di vista personale che professionale. Non si può non essere ovattati in un limbo di incertezze a cui fa appello la nostra fragilità di essere umano. Siamo chiamati costantemente ad integrare, uniformare e allenare il principio di realtà ma oggi è indispensabile farlo anche con quello di precarietà ed incertezza in cui ci si trova catapultati. Il “contatto” con il mondo esterno è venuto meno con violenza, restrizioni sempre più drastiche che il Governo è chiamato a dirimere, tali da innescare vissuti di perdita, professionalmente incentivata dalla distanza del setting, il luogo fisico ed emotivo dell’incontro con l’altro, quindi perdita della relazione con l’altro, la componente essenziale del mio lavoro è la relazione. La sintonizzazione emotiva, tipica della relazione d’aiuto, fa connettere i propri stati d’animo con l’altro, un “altro”che oggi richiama una “sintonizzazione d’emergenza” doverosa di contenimento e sostegno,dunque un cambiamento di rotta nei contenuti nonche’ nelle modalità che la distanza fisica impone e che rimanda alla necessaria digitalizzazione che oggi più che mai consente, e direi fortunatamente, di “connetterci” con chi in questo momento ne ha più bisogno(skype, messenger, whatsapp, telefono, videocall). Questa “socialità digitalizzata “è da intendere, in particolar modo in questo momento, come un collante universale dei rapporti umani che rende possibile la vicinanza, soprattutto emotiva con i propri cari e chi come me sostiene le persone in difficoltà. La perdita è dolore, un dolore per il dolore, questo quello che risuona interiormente quando penso ai familiari delle vittime che miete con ferocia questo virus, persone che perdono il lavoro, persone che perdono la propria bussola interna bisognosi di condivisione, contenimento, supporto. Lo scenario che si prospetta, che sarò chiamata ad affrontare, sarà costellato da “lutti spezzati” dalla mancanza della giusta ritualità e presenza come è naturale e giusto che sia. La città desertificata, è ciò che impatta maggiormente ai miei occhi, fa riecheggiare silenzi assordanti che ravvivano paure quasi ancestrali, paure instillate nell’individualità di ciascuno e nella collettività facenti parte dell’esistenza umana con cui ci si trova a fare i conti senza nessuna possibilità di remissione. Quando siamo messi all’angolo insieme alle nostre paure e alla nostra angoscia vi è la tendenza di dare un’identità esterna al pericolo, che è a noi “sconosciuto”. Questa esperienza ci prepara a pensare che l’“altro” siamo noi, prima il pericolo era l’extracomunitario, poi la Cina,...

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Al tempo del Corona Virus

Posted by on 22:00 in Riflessioni | 0 comments

Al tempo del Corona Virus

12 marzo, 2020 di Sarantis Thanopulos Dialogo con Sarantis Thanopulos Bollorino: “Cominciamo dalla psicoanalisi come pratica clinica e istituzione: sedute disdette, terapie via skype, convegni saltati, esami da ordinario e didatta saltati come cambia la psicoanalisi all’epoca del contagio?” Thanopulos: “La Società Psicoanalitica Italiana come istituzione deve rispettare l’ordinanza, quindi non può mantenere le date di alcuni eventi (che rischierebbero peraltro una scarsa affluenza). Per il resto, cioè seminari, esami, discussioni scientifiche ecc., bisogna trovare delle soluzioni straordinarie, per via telematica, ma non è facile approntarle in questa situazione di emergenza che, diciamolo pure, complica ogni cosa. Ma si lavora in questa direzione. Per quello che riguarda il lavoro di noi analisti è inevitabile che dobbiamo adattare le condizioni del loro lavoro alle circostanze attuali che impediscono, o rendono molto difficile, a una parte dei nostri analizzandi di raggiungere i nostri studi. Persone che sono in quarantena per essere venuti a contatto con soggetti contagiati, donne incinte, persone anziane, persone immunodepresse o che hanno familiari in condizioni molto precarie di salute. Ci sono poi analizzandi fobici che non riescono a affrontare la paura e non possono essere lasciati a se stessi perché è abbastanza evidente che l’emergenza si protrarrà. L’uso di Skype, videochiamate wattsapp, sedute telefoniche (a seconda di quello che l’analizzando preferisce o anche l’analista) non sostituisce certo l’analisi, e se la situazione attuale andasse molto per le lunghe, ci sarebbero delle difficoltà innegabili. Consente la prosecuzione transitoria di un lavoro che altrimenti potrebbe deragliare e la possibilità di un sostegno psichico indispensabile. La cosa importante è che l’analista non scambi l’intervento eccezionale con la normalità, non interiorizzi la logica dell’emergenza. Non scambi, in altre parole, lo stato d’eccezione con la vita vera. Per questo è importante che per tutti coloro che in seduta possono venire l’analista resti al suo posto e li accolga, prendendo le precauzioni necessarie. Nella misura in cui accoglie più persone in un giorno, l’analista è più a rischio del singolo analizzando, per cui capisco perfettamente i colleghi, soprattutto quelli che obiettivamente sono più vulnerabili alle conseguenze del contagio, che preferiscono limitare il loro lavoro alle sedute fatte a distanza. Personalmente preferisco vedere da vicino tutti i miei analizzandi in grado di venire (al momento la maggioranza), non perché mi senta invulnerabile, la mia età (68 anni) non me lo consente, ma perché penso che pur nella sua pericolosità, nella battaglia dei nostri corpi contro il virus le probabilità restano parecchio dalla nostra parte. Siccome potremmo tutti ammalarsi è meglio non concentrarci solo sul contenimento del virus (che malauguratamente potrebbe riuscire parzialmente) ma anche prepararci psichicamente a affrontare una potenziale malattia.” Bollorino: “Passiamo ai vissuti: cosa portano in seduta i pazienti?” Thanopulos: “Naturalmente, da vicino o nelle sedute a distanza, tutti parlano del Coronavirus. Chi perché ne ha paura, chi perché inevitabilmente invade la sua vita, come la vita di tutti. Gli atteggiamenti variano: eccesso di paura, preoccupazione ma con una certa serenità, fatalismo, insofferenza verso il clima di paura e di limitazioni delle proprie relazioni, ma senza negazione del pericolo. Nell’insieme il rapporto con l’analisi regge bene ed è valorizzato nella sua funzione. Pochi i sogni direttamente collegati al tema del virus (presente nel testo ‘manifesto’), molti quelli in cui esso è presente nel testo “latente” o quelli che lo usano come “residuo...

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Si fa presto a dire pet

Posted by on 10:30 in Psicologia | 0 comments

Si fa presto a dire pet

Tutto ciò che è abitudine, che vediamo fin da bambini ci sembra “normale” anche se contraddittorio e con origini complesse. Ma c’è molto da riflettere persino sugli animali da compagnia, tipicamente cani e gatti, che possono offrire esperienze di relazione ricchissime che ci toccano in profondità ma dei cui meccanismi non sappiamo quasi niente. Si tratta di relazioni fra esseri umani e mammiferi di altre razze, relazioni non legate allo sfruttamento dell’animale a fini alimentari ed economici come avviene con suini, bovini o pollame (non si butta quasi niente dei loro corpi). Parlo del mondo occidentale oggi ovviamente, giacché in altre regioni del mondo anche animali che oggi non vorremmo mai mangiare sono considerati alla stregua di cibo che cammina. E non dimentichiamo che nella nostra Europa, in tempi di guerra e carestia anche cani e gatti sono sempre stati visti come cibo: a mali estremi, estremi rimedi. Tornando però al rapporto che si instaura in genere con cani e gatti -non dimentichiamolo: nostri conviventi – qui si tratta di veri e spesso profondi rapporti affettivi, con aspetti emotivi molto simili a quelli che si possiamo instaurare con altri essere umani. Perché? La risposta che ai più viene in mente, e non a torto, è che assolvano ad un bisogno di contatto con la natura (gli istinti che loro molto più di noi conservano, malgrado l’addomesticamento) di cui c’è grandissimo bisogno nel mondo cosiddetto civilizzato. E infatti la pet therapy (l’impiego di piccoli animali da compagnia per alleviare mente e spirito di persone anziane e/o con difficoltà fisiche) funziona molto bene. Però il nostro allontanamento culturale dalla natura è un processo che dura ormai da millenni, la natura selvatica è qualcosa che ci fa paura anche se ne abbiamo bisogno, quindi questi rapporti, che beneficamente ci avvicinano a quanto c’è di primordiale in noi stessi, viene “sterilizzato” da quanto ha di duro e potenzialmente pericoloso per la nostra tranquillità, insomma, viene messo sotto controllo. Questi animali infatti sono molto più che addomesticati, devono essere inoffensivi e il rapporto è da padrone a “sottomesso”, condizione che non suscita sempre rispetto nei loro confronti. Di fatto, come noi, sono in parte “snaturati”. La condizione di cattività (da cui peraltro anche gli animali traggono vantaggi in termini, per esempio, di sicurezza) coincide con la sottomissione, perché crea -di solito fin da cuccioli- una condizione di radicale dipendenza il che tra l’altro fa permanere una psicologia infantile. I nostri amati animali non sono in grado di (lottare per) procacciarsi da soli il cibo, non sono stati allevati da genitori liberi in grado di trasmettere loro l’anima più “selvatica” che pure appartiene loro. La dipendenza è fortissima nei cani se si pensa che il loro “capo branco” umano decide persino quando possono espletare i propri bisogni: non è neppure raro vedere cani al guinzaglio strattonati da un padrone così distratto da non accorgersi che stanno cercando di fare pipì, trascinati via ad ogni tentativo. Anche se la più parte dei padroni di cani e gatti è “innamorata” dei propri animali e se ne occupa con attenzione e affetto, non bisogna dimenticare che esistono anche padroni che sugli animali sfogano le proprie nevrosi e frustrazioni: comandare sfogandosi su chi non può obiettare è sempre un dato nevrotico, a qualsiasi razza si appartenga. Poi ci sono persone...

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La comfort zone, ovvero la chiusura

Posted by on 10:31 in Psicologia | 0 comments

La comfort zone, ovvero la chiusura

Si sta diffondendo l’uso di questa espressione e, a patto che non venga usata a casaccio, la sua conoscenza sarebbe una ottima cosa nella direzione di una maggiore e diffusa comprensione dei meccanismi che caratterizzano il nostro cervello e la nostra psiche. Dico questo perché è la “comfort zone” o letteralmente “zona comoda, famigliare, agevole, priva di fatica o ansia” indicherebbe in origine uno stato psicologico, ma recentemente è declinata in modo improprio e modaiolo, fino a diventare un marchio di prodotti da consumare per indurre questo stato… e non mi riferisco qui a sostanze di vario tipo (!) ma a materassi avveniristici e prodotti vari legati al cosiddetto “ benessere”. Del resto sono gli alti livelli di stress nella nostra società che inducono questo genere di storpiature. In psicologia “comfort zone” si usa per indicare uno stato mentale che si potrebbe definire “immobilismo opportunista” o brutalmente “niente-problemi”: come un bozzolo che protegge da sollecitazioni e nuovi stimoli, è uno stato che tende a mantenere sé stesso, restando nel quale si evita accuratamente di entrare in contatto con agenti esterni che possono essere percepiti –tutti- come fonte di ansia o pericolo. Poco a che fare dunque con il sacrosanto bagno rilassante con i sali dal profumo preferito! Certamente la comfort zone indica uno stato indotto da persone o ambienti o situazioni ove ci possiamo rilassare, sentirci tranquilli e protetti, ma deve essere solo una porzione anche piccola del nostro tempo, dove rifugiarci ogni tanto, mentre la vita va vissuta, vissuta e affrontata là fuori, anche senza ombrello. E’ uno stato che può infatti essere decisamente negativo se si protrae a lungo nel tempo e che può incontrare qualche parentela con sindromi depressive; un esempio diffuso è una fase spesso vissuta dai giovanissimi nella quale il distacco dalla protezione degli adulti risulta difficile, andare verso l’età adulta è sentito come pericoloso, al punto da rinunciare alle esperienze che servono a sperimentare il mondo, ad affrontare cose nuove. Accade anche agli adulti, dietro c’è talvolta il timore del fallimento, il non saper affrontare positivamente il nuovo; spesso si accompagna ad una radicata chiusura mentale, alla raffigurazione patologica del diverso come sempre minaccioso. Quelle che così vengono accuratamente evitate ed etichettate come negative/inutili/non interessanti a priori sono le opportunità di sviluppo che il mondo ci offre in continuazione. Tra la spericolatezza e – all’opposto – la chiusura al nuovo, c’è una vasta area che si chiama “attraversare la vita, conoscere e capire” il mondo attraverso il solito gran metodo: l’esperienza personale. Per evolvere non dobbiamo restare sempre uguali a noi stessi, dobbiamo confrontarci e lasciarci contaminare. Una questione con molte sfaccettature, altro che bagno...

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Quando sei stanco

Posted by on 10:35 in Psicologia | 0 comments

Quando sei stanco

“Ciao Doc, è successo ieri all’ingresso di un locale dove avevamo prenotato da tempo: una agitata ragazzotta che aveva la metà dei miei anni mi ha preso a male parole perché non sorridevo e non ho gradito il suo stupido pretendere che lo facessi; lei (ho saputo dopo) è la figlia del proprietario del locale, e quando le ho detto che un cliente non ride per forza e non va accolto incalzandolo, non la smetteva più, fino a dirmi che lei con me era stata carina e io invece sono una donna negativa, ha persino commentando a voce alta che non sarei stata capace di godermi la serata … ovviamente voleva anche a tutti i costi l’ultima parola. Così gliel’ho lasciata l’ultima parola perché ero stanca e non di buon umore ma, tanto per cominciare, erano fatti miei. Quello che mi ha dato fastidio è non averle tenuto testa come avrei voluto. Poi ripensandoci, invece di arrabbiarmi con me stessa, ho capito: noi siamo animali, funzioniamo come tutti gli altri animali. I predatori aggrediscono le prede più fragili (più facili); se c’è in giro un parassita, una sanguisuga, una zecca che sta cercando un bersaglio a cui attaccarsi, per certo sceglie, va a istinto, ma sceglie. Se è così, un bersaglio non è quasi mai casuale, ha cerchi colorati dipinti addosso, anche se non si vedono con gli occhi. Se è così, la pazza ha cercato qualcuno che non avesse in quel momento la forza di assestarle un ceffone -anche solo psicologico- come avrebbe meritato. Se io fossi stata percepibile come più grintosa o anche solo più serena, probabilmente si sarebbe astenuta. Così, oggi penso che ho solo incontrato una “dilettante allo sbaraglio” -accogliere i clienti è certamente tutt’altra cosa- o, semplicemente, una un po’ montata e maleducata a cui da ora in poi non penserò più. Però in quella situazione, il mio istinto ha funzionato così così, e questo è il punto che mi interessa: ho capito che quando ci si sente stanchi si devono fare solo le cose indispensabili, riposare non significa genericamente “recuperare le energie”, si tratta anche di mantenere intatto (o ripristinare) una sorta di scudo protettivo che gli altri percepiscono e che può essere utile quando meno te lo aspetti. Tu che ne pensi Doc?” Sì, è...

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Il maschio che non c’è

Posted by on 10:39 in Psicologia | 0 comments

Il maschio che non c’è

Le donne in genere non sanno, forse intuiscono, ma con difficoltà possono comprendere la portata di quanto sta accadendo: si sta perdendo il maschile Nella corsa ad eliminare tutto ciò che c’è di irrispettoso e talvolta opprimente e persino schiavizzante nella condizione femminile nella cultura occidentale (in altre è anche molto, molto peggio); e anche nella corsa al denaro, necessario in modo crescente ai nostri giorni, la donna ha potuto fare molti passi avanti, ed ha mostrato di saper essere estremamente capace e indipendente. Ma sembra che gli uomini non siano in grado di apprezzare questa fruttuosa “apertura” al mondo da parte delle donne se non diventando più deboli e talvolta perdendo la dignità; dopo la rivoluzione femminista una armoniosa collaborazione nello sviluppo reciproco fra i due sessi non è affatto cresciuta come si poteva sperare, e sono invece in crescita le reazioni di riflusso da parte degli uomini a cui segue la dura reazione delle donne (non serve nemmeno parlare dei “femminicidi”), in un circolo vizioso che porta alle crisi dei rapporti note a tutti. Il “saldo” finale di questo insieme di linee di tendenza mostra che sempre più le donne fanno a meno degli uomini: cercano l’indipendenza economica, trovano sempre maggiore autonomia; per una intera generazione dopo gli anni ’70 sono state uniche affidatarie dei figli nelle separazioni, data la notevolissima propensione dei giudici ad affidare solo a loro i bambini in tenera età, … libere di creare per i figli maschi un mondo al femminile, e di allevarli quindi privi di riferimenti maschili. Così, generazione dopo generazione, i giovani maschi di oggi sono sempre meno “solidi” perché crescono senza ciò che solo un altro maschio può fornire loro fin dall’infanzia: l’identità con cui confrontarsi e da cui patire per costruire la...

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Ferite e ciccatrici

Posted by on 10:42 in Psicologia | 0 comments

Ferite e ciccatrici

Facciamo un esempio. Essere bullizzati da piccoli significa essere usati ripetutamente come bersaglio, per un periodo sufficiente a far si che difese già deboli si indeboliscano ulteriormente. Così si crea un danno psicologico, spesso solo in parte riparabile, che il bullizzato porta con sé tutta la vita. Le difese sono “già deboli” certamente rispetto a quelle del carnefice: per non parlare delle persone oggettivamente fragili e indifese, spesso affettivamente isolate: anche se la fragilità è psicologica, i bulli la vedono subito, come avvoltoi ci si fiondano sopra, la rendono evidente a chiunque cominciando a cibarsene e tenendo la vittima a lungo sulla graticola; gli altri spesso ridono o non se ne curano. Il comportamento del bullo è vigliacco e sadico. Così vigliacco che per attivarsi ha bisogno di altri aguzzini intorno, se questi non ci sono succede che di fronte alla sua vittima diventi persino amichevole, addirittura può cercare di recuperarne la fiducia, per meglio massacrarla appena decide di tornare a perseguitarla. Che sia sadico, è evidente. Il bullismo è diffusissimo nell’infanzia e anche il danno permanente lo è, ma del danno si parla poco. Una mia paziente non più giovane lo racconta così, non senza essere presa da una forte emozione anche se sono trascorsi cinquant’anni dai fatti. “Pensi che crescendo non ti capiti più, che gli adulti siano più saggi e meno cattivi (!) e io che sono stata bullizzata tutti i giorni dei tre anni della scuola media non posso dire in effetti che sia più capitato, ma ho vissuto tanta parte della mia vita in preallarme. Il mio incubo erano due compagne di classe di cui ricordo tutto nei minimi dettagli, con gli occhi da adulta posso classificare con maggior distacco quelle che erano solo bambine ignoranti, ma loro sono state a lungo le mie aguzzine. Avrei avuto bisogno dell’aiuto di uno psicologo, ma a quell’epoca non si usava, di bullismo non si parlava e i miei genitori sembravano non accorgersi affatto di quanto stessi male ad andare a scuola tutti i giorni. A scuola ero brava, ma anche questo dava alle mie carnefici un motivo per punirmi. Crescendo ho investito più che potevo su tutto quanto poteva fortificarmi e darmi sicurezza; ho imparato a nascondere la paura. La paura in fondo non se ne va mai. È la paura che ricapiti perché, se i bulli annusano la preda con facilità, anche la preda li riconosce subito e nel mondo ci sono tanti potenziali bulli, come se il sadismo umano fosse silente ma attivabile in un lampo da qualche improvviso imprevedibile input. Ho imparato a difendermi, a rispondere a tono e soprattutto a mandare a quel paese i potenziali bulli che mi intuiscono e ci provano. Ma anche se più nessun bullo mi attacca, purtroppo io ho dentro di me una ferita che sento potersi riaprire con facilità, e so persino dove si trova: è alla bocca del mio stomaco. Nella mia vita ho speso molte energie per evitare situazioni e persone che potessero riattivare quella ferita, ma non si può vivere costantemente in preallarme: ci si potrebbe ammalare. Purtroppo ciò di cui parlo è più di un ricordo, a volte rivivo l’emozione ed è terribile come da piccola: succede quando una presa in giro anche innocua e scherzosa contiene qualcosa, non so spiegare cosa,...

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Viaggiare leggeri

Posted by on 10:44 in Psicologia | 0 comments

Viaggiare leggeri

Nei decenni passati, il benessere del “secondo dopoguerra” ha portato l’umanità all’accumulo. All’accumulo e al benessere. Almeno quella cosiddetta occidentale, si intende. Lo sanno bene i baby boomers come me (quelli nati grosso modo tra gli anni ’50 e i ’60) che hanno vissuto un’epoca di crescita e tutto sommato un’infanzia e una adolescenza abbastanza spensierate – se mai un’adolescenza può esserlo, ovviamente. Diciamo che man mano che i ricordi della guerra si allontanavano oppure venivano cacciati a calci dalle coscienze, le modalità di vita erano tutte in crescita: fiducia nel progresso, certezza di poter migliorare la propria condizione economica, di poter studiare e far carriera più dei propri genitori, comprare la macchina, la casa, tutti gli elettrodomestici desiderabili e poi la casa in campagna, e poi …. Poi è iniziato a crescere il consumismo, il consumo per il consumo, il consumo di quello che non è più necessario, perché il necessario non mancava più. Oggi, in un mondo completamente diverso, dove si parla con fastidio dell’obsolescenza programmata dei prodotti (si devono rompere più velocemente per favorire il riacquisto) e una ragazzina di 16 anni ci dà la sveglia segnalando che il nostro pianeta sta andando fisicamente e letteralmente alla rovina, ci guardiamo intorno e vediamo una nuova generazione completamente trasformata rispetto a quella dei loro nonni e genitori. Nonni e genitori fino ad ora sono rimasti avvinghiati a ciò che hanno conquistato e hanno dormito su troppe cose comode. I giovani svegliano i vecchi, come è loro dovere fare; i vecchi pensano che forse i giovani hanno subito una mutazione: non sono interessati ad acquistare, ma solo ad usare le cose per il tempo che serve; i verbi sono “noleggiare, prestare, barattare, affittare” … persino la casa che i genitori si offrono di comprare per loro e loro non vogliono. Noi cercavamo certezze, loro vanno a braccetto con la precarietà. Lo hanno capito benissimo le marche automobilistiche che da qualche anno promuovono tutte le formule possibili di noleggio “lungo”. Persino quando diventano miliardari i giovani lo fanno col digitale, qualcosa che nemmeno si tocca. Ma hanno ragione loro, anche i baby boomers stanno scoprendo che nella vita è meglio viaggiare leggeri, non perché sei povero, ma per scelta; i giovani lo fanno perché vivono in un modo che scoraggia il fare programmi “impegnativi”, o peggio non sostiene la fiducia. I più vecchi, lo fanno perché spesso diventano -almeno un poco- “zen” e comprendono che non solo non porteranno nella tomba tutte le cose che posseggono ma – già ora, qui- tutte queste cose intorno non li aiutano a ragionare bene, li tirano verso il passato anziché lasciarli librare verso un futuro di cui hanno diritto di godere, magari non è lunghissimo, ma c’è e non coincide con le agognate ferie. Viaggiare leggeri, respirare profondamente più che si può, badare al sodo e ai dettagli vitali, non occuparsi delle zavorre che in fondo sappiamo essere tali, fisiche o psicologiche....

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Basta la parola

Posted by on 10:45 in Psicologia | 0 comments

Basta la parola

La “medicina narrativa” pur nella sua apparente semplicità è davvero uno strumento di cura, capace di guarire, o almeno aprire le porte alla guarigione delle ferite psicologiche. Il racconto di sé e l’ascolto del racconto degli altri sono esperienze capaci di aprire al contatto esterno chi si è chiuso nel dolore. Però ne sento parlare in modo superficiale, banalizzante, come se fosse una moda, l’ultima novità su cui essere aggiornati. Qualcosa di analogamente superficiale si vede quando alle aziende viene spiegato come fare al meglio lo “story telling” di sé stesse per cambiare in breve tempo la propria immagine. Quella che c’è sullo sfondo è un’epoca in cui da un lato si va perdendo la lingua-madre, almeno in Italia, mentre dall’altra, ad esempio, l’uso sempre più spinto della messaggistica digitale porta il mondo intero verso scorciatoie linguistiche e modalità di comunicazione sempre più sintetiche e veloci capaci di avere un effetto persino narcotizzante sul cervello umano. Purtroppo la superficialità porta alla sottovalutazione di quel patrimonio incommensurabile dell’umanità quale è la nostra possibilità –costruita in millenni- di comunicare a livelli raffinatissimi. Perdere la consapevolezza del valore della parola significa anche perderne tutta la possibile ricchezza che offre. Non solo la parola trasmette informazioni, ma offre chiarezza, confronto, veicola esperienze ed emozioni, dando spazio -per esempio- all’empatia che è anche una chiave che apre ad un livello di comunicazione più elevato e pieno di significati nelle relazioni interpersonali. Ma la parola non è solo questo: la parola ricorda, evoca, crea, cura, lenisce o fa ammalare. Il potere creativo della parola è qualcosa che (magari non riconosciamo razionalmente ma) tutti gli esseri umani sperimentano: sappiamo che le parole ci possono deprimere e far disperare oppure incoraggiare e rinascere, possono farci immaginare cose che non conosciamo e persino un modo “migliore”, possono benedire e maledire: da questo potere della parola e del racconto prende le mosse la medicina narrativa. Questa capacità di azione diretta e immediata che la parola pronunciata o scritta ha sulle nostre anime è così evidente che la parola ha una sua “magia” e un suo potere da sempre riconosciuti e praticati. Vale anche oggi: non è necessario pronunciare formule magiche, basta riprendere ad usare usare il linguaggio con onestà e...

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