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Quale volontariato? Questione di capienza

Quale volontariato? Questione di capienza

Ci sono mille modi essere volontari, tutti validi, tutti rispettabili; ma proprio questa estrema varietà dei possibili modi sottende scelte che sollecitano qualche riflessione.

Si può fare volontariato raccogliendo fondi in un mercatino o passando la notte in pre-allerta su una ambulanza del pronto soccorso, o servendo i pasti in una mensa per indigenti, … esistono tutte le gradazioni possibili, ma gradazioni di cosa? In ogni caso si mette qualcosa di sè, tempo ed energie in primo luogo, a disposizione di qualcuno che ha bisogno di aiuto, in ogni caso si entra in contatto con problemi di cui ci si potrebbe legittimamente non occupare.

Tutti dovrebbero fare del volontariato, fa bene agli altri, ma anche a noi, al corpo e alla mente. Ma quale volontariato?

Le differenze salienti dipendono da quanto è ravvicinato il contatto con il destinatario del nostro aiuto e quindi dalla quantità e intensità dell’implicazione umana a cui acconsentiamo.

Quando lavoriamo per una organizzazione che opera lontano, che per esempio assiste popolazioni con cui non entriamo in contatto, prestiamo assistenza a situazioni che conosciamo solo a distanza, che certamente ci possono anche travolgere sul piano emotivo, ma è un fatto che non tocca fisicamente la nostra realtà quotidiana.

Quando si è volontari a contatto diretto con chi ha bisogno aiuto si entra in contatto diretto con il dolore, il disagio, con la sofferenza di una o più persone; l’implicazione umana, emotiva e psicologica è allora molto diversa perché è vissuta nel reale.

I volontari che operano in situazioni come queste dovrebbero essere ben preparati, anche psicologicamente, dalle strutture per cui operano e possono lavorarvi a lungo anche perché sviluppano una “professionalità” che li scherma e in parte protegge; tuttavia -così come avviene per i professionisti, si pensi ai vigili del fuoco- nessuno di loro vi dirà di essere impermeabile a tutto ciò con cui entrano in contatto: le tragedie umane sono abissi vertiginosi ed entrare in contatto con essi inevitabilmente ti modifica, come minimo ti può esaurire le energie psicologiche ed emotive.

Le motivazioni per cui si sceglie di fare il volontario sono mille, diversissime e molto personali, ma l’elemento-chiave che fa scegliere questa o quella strada ha molto a che fare con quella che qualcuno ha definito “capienza”, ovvero la quantità di sofferenza o miseria umana con la quale si è in grado di entrare in contatto senza bruciare sé stessi e il proprio equilibrio.

Ma quest’ultimo aspetto a sua volta dipende molto da quante risorse nella nostra vita personale possiamo avere e ricevere: dai buoni rapporti, da quanto ci sentiamo amati, dalla soddisfazione di noi stessi, di quello che facciamo … se la nostra vita non funziona, se non sappiamo come “ricaricarci le pile”, il volontariato da “duri e puri” per ora lasciamolo da parte.