Sessualità e malattia
In tutte le culture e in tutte le epoche, la sessualità costituisce una sfera della vita umana che ha un ruolo centrale e cruciale. La sessualità non è mai stata vissuta come un ambito del tutto “neutro” dell’esistenza, ma sempre concepita nelle diverse culture qualcosa di “speciale” e di volta in volta celebrata oppure, all’opposto, nascosta e ricoperta di tabu. Nella nostra civiltà e nel nostro mondo occidentale, molti tabu legati al sesso, che resistevano da secoli, sono stati abbattuti e sostituiti financo da una continua ostentazione; questa però denuncia la perdurante mancanza di “confidenza” con questo tema. La sessualità di fatto viene riduttivamente interpretata come pura genitalità, poco o per nulla bilanciata e integrata con una delle componenti più importanti dell’essere umano, la affettività.
La sessualità intesa come genitalità è strettamente legata al potenziale riproduttivo (e lo è anche quando la genitalità è vissuta fine a sé stessa) ed è per questo appannaggio prevalentemente dell’età giovanile. Ancor più –in un’epoca come la nostra in cui le immagini sono così importanti- la sessualità viene continuamente proposta, interpretata e pubblicizzata in uno stretto legame con i canoni estetici vigenti, dove prevalgono esibizioni muscolari e corpi esteticamente desiderabili. Tutto questo nel nostro mondo è appannaggio dell’età giovanile, ed è della età giovanile che sono state isolate alcune caratteristiche, esaltate e indicate come modello da proporre a tutta la collettività: bellezza, salute, energia.
Con questa premessa, non stupisce che vengano travisati il senso e il valore che la sessualità ha per le persone: al contrario, la realtà è che tutti gli esseri umani, in qualsiasi condizione si trovi il loro corpo e in qualsiasi punto si trovino della parabola della vita, hanno una sessualità e hanno il bisogno -così come il diritto* di viverla. Ma la nostra società non è ancora pronta, perché non è educata a comprendere questa facile verità.
Certamente non è semplice arrivarci: mentre assistiamo ad una estrema liberalizzazione dei costumi infatti, la sessualità, proprio perché relegata a “faccenda per giovani” viene ricoperta di tabu se vissuta e agita dagli anziani. Ancor più forte è il tabu quando si pensa alla sessualità agita da chi sia affetto per esempio da un handicap grave o da una malattia: la nostra società non vede in queste condizioni nulla di bello o di “sano” o di forte e quindi molto facilmente se ne scandalizza. Ma c’è di peggio: la condizione più di tutte inconcepibile e inaccettabile per la maggior parte di noi, è quella dell’abbinamento sessualità-malattia terminale. Forse non c’è nulla che più venga sentito come distante dalla condizione di malattia terminale come la sessualità. Nella nostra cultura, e non solo nella nostra, vige l’equivalenza sessualità=vita e malattia terminale=morte: due opposti che non possono convivere.
In questo modo però, si dimentica che anche un malato in condizione di terminalità è ancora vivo. Certamente, nel caso di un malato grave, non parliamo della sessualità agita come quando si è in perfetta forma fisica e pieni di energie; parliamo invece della sessualità a tutto tondo, parliamo cioè del bisogno di affetto, tenerezza, intimità e contatto fisico, che soddisfano bisogni degli esseri umani che sono basilari e nelle persone possono essere vivi finché le persone lo sono.
Il malato stesso può essere vittima di questo tabu e conseguentemente della vergogna; ma anche quando il malato è in grado di superarli e di comunicare i propri desideri, è chi lo circonda, personale medico, infermieristico, operatori vari, amici e parenti, a dare per scontato che questa dimensione non lo riguardi perché è malato, negando quindi al paziente l’ascolto di suoi bisogni reali e il diritto a che vengano accolti, compresi e soddisfatti. Una discriminazione di fatto, una considerazione del malato come interlocutore di serie B, i cui bisogni e i cui sentimenti vengono calpestati in nome dei tabu di cui sono preda coloro che sono sani.